estratto dal poemetto di Giacomo Cerrai
Edizioni l’Arca felice, 2009
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L’incuranza era articolazione
retorica dei fonemi, diffidenza
di norme in ah e oh,
i senni e i poi
d’una piccola esigua società;
indagavi
cosa scegliere di questi capi
di veniale accusa, il merito
di sentirsi nel confronto meno reo.
Questo grigio carico diventava
grave alle spalle:
t’occultavi in spalle
richiedendo avvocature
ai libri.
Se la querela cresceva,
come una spinta uguale e contraria,
ritiravi la causa.
Le carte ingiallivano,
come la gran parte delle immagini.
I rinvii erano ripiegare il desiderio,
il prevalere del recente,
un irritato oblio
del bene più lontano.
***
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Il crepuscolo incipiente sconsiglia
perlustrazioni.
Oltre opachi coni di luce, all’ascolto
dei vetri il vibrare dell’ultimo tuono
si china la testa.
C’è una divinità che non ascolta,
spoglia gli alberi e il giorno,
spoglia la vita stessa.
Si nasconde in noi e non ci prega.
Se conti i secondi tra silenzio e ombra
capisci che lentamente s’allontana.
È la stessa decadenza della voce,
un tetano che serra le mascelle,
nulla che possa impedire,
senza la quiete del dopo,
il sorpassare d’una soglia.
Sul tardi, il trattenersi d’un gesto blando
ha la sua scrittura in inutili corsivi.
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